26.12.09

Pausa (di riflessione)





Dal cibo, dalle festività, dal traffico e dal caldo onnipresente.

Fra un paio di giorni (da interpretarsi come: dal 2 gennaio in poi) un paio di aggiornamenti (uno dei quali provvisoriamente intitolato "Il reverendo, il sogno americano e il cane" e l'altro è ancora senza un nome). E un nuovo progetto (pseudo "alternativo") che sto per iniziare (e che avrà un sito dedicato).

Per il resto auguri. In ritardo obviously. Anche se per quelli di fine anno sono nettamente in anticipo.

Brevi "note" di chiusura:

-Letto "Mater Morbi" (QUI una serie di "contenuti speciali" postati dallo stesso Recchioni), mi è piaciuto, ma speravo in un qualcosa di più estremo. Complimenti al dinamico duo, in ogni caso.

-Finito "Bar Sport" (S. Benni), "Effetti collaterali" (W. Allen) e "Il peso della farfalla" (E. De Luca). Tutti e tre ottimi acquisti.

-Un paio di giorni e inizierò "Gli insegnamenti di Don Juan" (C. Castaneda).

-Mi hanno regalato un cuscino a cui collegare l'iPod, un motivo in più per rimanere sul letto d'ora in poi.

-In questi giorni conto di andare a vedere lo Sherlock Holmes di Ritchie (giusto perché "Rock'n'rolla" mi è piaciuto e Robert Downey Jr. è un signor attore)

-QUI trovate il calendario 2010 de "I 400 calci". Già scaricato e finirà appeso al muro quanto prima. 


-Riscoperti i Motörhead

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21.12.09

No, grazie






Me ne frego di tutti quelli che mi dicono “Doc stai diventando vecchio” o “Ehi Doc a quando la prossima visitina?”.
Ma farsi una buona dose di fatti propri e diventato demodé?
Certo è innegabile, ci sono segnali inequivocabili, ma è meglio non prenderli troppo sul serio.
Pian piano ti accorgi che stai invecchiando, che a fare le scale impieghi sempre un minuto in più.
Che non sorridi più come un tempo e se lo fai ti vergogni dei denti che ti mancano.
Questo vuol dire invecchiare, soltanto questo.
Per non parlare poi del rapporto con gli altri, ogni giorno ti svegli e non vorresti nemmeno alzarti dal letto, perché sai, in cuor tuo, che dovrai sorridere ad un qualche vicino preso a caso nel condominio, che la signora del quinto piano è sempre benevola fino a quando non lasci impronte di fango nell’ingresso e che il postino, imperterrito trentottenne di altri tempi, non imparerà mai a mettere la posta nella casella giusta.
Un’altra cosa, penso l’ultima, parliamo dello sport.
Non dimentichiamoci di tutti i medici che puntualmente ci invitano a fare un minimo di attività motoria ogni giorno. “Così il sangue si mantiene in circolazione a dovere”, “Così sarete sempre giovani”.
Ma quando mai? Ho ottant’anni, cazzone, non lo vedi che a mala pena riesco a respirare?
Che impiego quindici minuti per farmi due piani di scale a piedi?
Perché mai con quaranta minuti di attività fisica al giorno potrei ringiovanire?
Ma, soprattutto, dovrei ringiovanire?
A quest’ora ci sarebbero tanti Benjamin Button in giro per il paese.
Però immaginate ringiovaniscano soltanto fisicamente e non mentalmente.
Avremmo ottantenni nel corpo di ventenni, che non pensano ad altro che a tette, culi, pastina in brodo e sigarette nazionali. Con la differenza che alla prima erezione sarebbe il caos, uscirebbero a far baldoria. Degenererebbe l’intero sistema.
Quindi no, grazie, ma io non voglio esser parte del processo di autodistruzione della nazione.
Preferisco rimanere nel mio piccolo cosmo, nella mia assenza di denti (ed erezioni).
No, grazie, non voglio nemmeno acquistare quel portentoso apparecchio per l’udito che mi consentirebbe di udire fino a distanze inimmaginabili, poi sarei costretto ad ascoltare mia moglie per ogni sua minima lamentela.
E’ bello, invece, ogni tanto isolarsi dal mondo, gli altri parlano e tu ti limiti ad annuire.
Magari passerai per un buon coglione, però riesci ad uscire dignitosamente dalla maggior parte delle discussioni.
No, grazie, non voglio nemmeno un paio di occhiali nuovi, di quelli che sono chiari in interni e scuri in esterni. Tanto sarebbero scuri anche in interno, quella usa sempre lampadine da tremila wolt per illuminare il soggiorno.
E io ci vivo in soggiorno.
E no, grazie, ma non intendo ordinare tre pizze special per averne in omaggio una ai peperoni, a me i peperoni fanno dannatamente male.
No, grazie, io rimango in casa a fumare la pipa e me ne frego di tutto il resto.
E si, sto invecchiando. Sono nato vecchio.
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16.12.09

Mille volte mille





Era un uomo come tanti altri, né più né meno.
Era il suo ultimo giorno di lavoro, poi L'uomo delle colonne sonore sarebbe potuto andare in pensione. Meritatamente, dopo oltre settant’anni di onorato servizio.

Era sovrappeso, e questo non gli andava a genio. Stava iniziando a perdere i capelli, e neanche questo gli andava molto a genio. Ringraziava il signore per averlo fatto smettere di fumare quando era ancora un giovane sbarbato, altrimenti avrebbe avuto anche il fiatone.
Però, da lì a poche ore, sarebbe andato in pensione e questo lo rendeva, invece, parecchio contento. Soddisfatto, come un bambino messo di fronte ad un vasetto di Nutella. 
Avanzava a tentoni nel buio del retrobottega, ma non mancava mai di ancheggiare come suo solito e di fischiettare prima un jingle e poi un altro, consapevole che nessuno sarebbe venuto a fargli visita quel giorno. Come era successo per tutti gli altri giorni.

Fu durante l'ultima ora di lavoro, invece, che entrò in negozio una cliente.
Si presentò, disse di essere La regina delle celebrità.
Per un attimo L'uomo delle colonne sonore ripensò a quella canzone che tante volte gli era riechegiata nella sua testa minuta, il nome era quasi lo stesso della donna nella canzone, ma lei non sembrava affatto magnifica e senza una età, era anzi piuttosto bassina. Con dei lunghi capelli neri, leggermente mossi, e due seni minuti, che in una coppa di champagne ce ne sarebbero stati comodamente quattro, capezzoli compresi. 

Aveva, poi, dei fianchi striminziti, quasi inesistenti. Un vitino da palo di scopa, più che da vespa, pensò lui.
E degli occhi, color nocciola che da lui non distoglievano mai lo sguardo.
Furono attimi interminabili per entrambi, poi lui la baciò, come mai aveva fatto prima in vita sua. E fu subito amore.

Lui chiuse per bene la porta del negozio affiggendovi un cartello con scritto “Chiuso per cessata attività”, lei telefonò al suo agente comunicandogli che non avrebbe voluto più sentirlo a vita (dicono si sentì un tonfo dall’altro capo dell’apparecchio). E insieme si incamminarono, come nelle migliori storie, verso una ridente casa nella tiepida campagna.
Dove trascorserò giorni dolci e notti di fuoco.

Non vissero felici e contenti, non per molto almeno.
Lui, spossato dalla monotonia della vita da pensionato, tornò dopo un paio di mesi a lavorare e lei, che in vita sua non aveva mai fatto vita da casalinga, vedendosi ingrassare a dismisura e priva delle attenzioni di migliaia di occhi digitali puntati su di lei, prese nuovamente a calcare i palcoscenici e le passerelle di tutto il mondo.

Si incontrarono nuovamente un paio di anni più tardi, una sera di Dicembre, faceva freddo ed erano entrambi senza cappotto, ma decisero ugualmente di tenersi a debita di stanza l’uno dall’altro.

Un semplice “Ciao”, freddo e insicuro, e si incamminarono in direzioni divergenti.
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12.12.09

Thomas





Thomas ha vent'anni.
Thomas si alza ogni mattina alla solita ora, le 9.28.
Il suono della sveglia, ogni giorno uguale, gli rimbomba nelle orecchie.
Ogni mattina pensa ad una maniera alternativa per preparsi il caffè, se col latte -anche se non sarebbe necessario- o con qualche altro strano ingrediente aggiuntivo. Potrebbe essere lo zucchero non raffinato, meglio noto come zucchero di canna. O il miele. O ancora la marmellata. Ne conserva diverse varietà nel suo frigo, dalla ciliegia ai frutti di bosco. E poi fuma. Fuma una sigaretta prima di bere il caffè e una dopo, per non andare contro tendenza e rimanere all'interno del coro. E fuma sempre e soltanto Pall Mall blu, mai nessun altra marca. E infine si decide a vestirsi.
Abiti casual. Generalmente apre l'armadio e prende le prime cose che gli capitano sotto mano.
Non bada all'aspetto esteriore. Non gli interessa. Non ha il tempo necessario per farlo.
E infine si decide ad uscire -è costretto a farlo- ad andare come ogni giorno a lavorare, ripercorrendo la solita strada, incontrando i soliti negozianti lungo il cammino e assaporando sempre gli stessi odori, le stesse amarezze e rivivendo le stesse situazioni, in un perpetuo déjà-vu quotidiano. Senza fine.
Thomas lavora incessantemente ogni giorno. Nove ore al giorno. Arriva sul posto di lavoro alle 10 e smonta alle 20 in punto. Ha un'ora di pausa per pranzare. Generalmente è solo, non frequenta i suoi colleghi di lavoro, li ripudia e pensa loro facciano altrettanto. Li immagina come macchinette armoniche di metallo e carne, molle in tensione pronte a scattare una volta che vien fornita loro la giusta pressione. Thomas consuma il suo piatto ipocalorico e riprende a lavorare.
Sospetta qualcuno trami alle sue spalle, ma è la routine. Gli succede da quando aveva cinque anni, da quella volta in treno, in cui non era riuscito a rendersi conto di quello che stava succedendo e si era poi ritrovato in una delle situazioni peggiori e più angoscianti della sua vita.
Terminato il suo turno di lavoro torna a casa.
Percorre lo stesso tragitto compiuto al mattino, senza curarsi delle insegne accese e della gente per strada.
Torna a casa e cena. Con la solita scatoletta di cibo preconfezionato. Non può permettersi altro. Guarda la tv, solito intrattenimento di bassa lega, utile a conciliargli il sonno. Sul divano. Come ogni sera.
Una vita abitudinaria, scandita da ritmi precisi, predeterminati.
Thomas non lavora. Non dorme, o meglio, lo fa per la maggior parte della giornata, è alimentato artificialmente, non cammina, non può. Non riesce nemmeno a parlare. Una sedia a rotelle ed una badante di 37 anni sono i suoi soli compagni nel corso delle sue lunghe giornate. Interminabili.
Thomas ha vent'anni. Da quando ha memoria sogna di camminare, di correre, di giocare con gli altri bambini. Come gli altri bambini. Sa che non potrà mai farlo. Si limita ad immaginare, a sperare che la sua vita gli riservi qualche sorpresa, che non sia la perdita della vista o dell'udito, o il dover rinunciare al controllo sull'ennesimo arto.
Ha sempre quel barlume di speranza che lo spinge ad andare avanti, a svegliarsi ogni mattina e sorridere al mondo.
Thomas ha vent'anni.
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Viale del tramonto





Eva è morta. La donna che in questo momento stona sul palco è ormai la brutta copia di sé stessa. Magra, smunta e con la voce roca, non le è rimasto più niente del fascino e della trasgressione di quella ragazzina ventunenne dai capelli neri e mossi. Una rancida copia della mome che canzona ogni suo aspetto e prova a guadagnarsi il pane quotidiano, riuscendoci a stento. E io, noi, poveri illusi, la accompagniamo. Perché a conti fatti non sapremmo dove andare, cosa fare, e ci sta bene passare agli occhi di tutti per la sua “band” piuttosto che per dei vecchi buoni a nulla, per giunta di colore. Questa non è Parigi, lì eravamo perfettamente integrati, se sei negro nessuno viene a dirti niente, lì è di colore una persona su tre, sarebbe come offendere il proprio vicino di casa o sputare in faccia alla propria madre e pensare di farla franca. Ma qui è diverso, in questo posto, che chiamano la Città degli Angeli, per gente come noi è impensabile, impossibile, andare in giro da soli dopo una certa ora e in certi luoghi. Ci sono quartieri dove ci mangerebbero vivi e, se sapessero di Eva, penserebbero anche alle nostre ossa. E lei, stupida cinquantacinquenne, si ostina a vestirsi come una puttana d’alto bordo, a provocare gli spettatori, senza rendersi conto che un pezzo di legno non se lo farebbe proprio nessuno. Non oggi, che lo stupro è quasi legalizzato. Non oggi, che la pedofilia è a un passo dall’entrare nei dizionari come pratica sessuale convenzionale. Non oggi, che pagare una escort costa quasi quanto un Big Mac. Ogni sera un night diverso, ogni sera cento dollari che ci tocca dividere in cinque. Ogni sera quel letto diventa sempre più scomodo e lo stomaco sempre più piccolo. E i miei capelli sempre più bianchi. Vaffanculo Eva, avevi tutto, bellezza, successo, ma vi hai rinunciato per seguire lui, quel Jacques Brel d’altri tempi. Era bello certo, ma altrettanto bastardo. Ci ha venduti al miglior offerente, ti ha lasciato in suo ricordo due feti che mai hanno visto la luce e svuotato il tuo conto in banca. Vaffanculo Eva, avresti dovuto darmi ascolto quando ti mettevo in guardia. Abbiamo iniziato noi due insieme, non avresti dovuto allontanarmi nel momento del bisogno. Vaffanculo Eva, io ti amo.
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Social Network





L’aveva notata tra gli appartenenti ad un gruppo al quale si era iscritto, per giunta, previo suggerimento. Lui ne vide gli occhi grandi, verdi. E fu subito amore.
Poi scoprì che era di Roma, come lui, e si passavano pochi anni. Sei. 
Abbozzò un sorriso e pensò bene di scriverle.

“Ciao, mi chiamo Marco, ho visto che sei di Roma come me. Non ho potuto fare a meno di innamorarmi di te vedendoti in foto. Mi piacerebbe incontrarti, conoscere tutto di te, sussurarti il mio amore ogni momento della giornata. Ti prego, rispondimi”.

Lei aprì la casella di posta, notò un nuovo messaggio.
Oggetto assente, ma prima ancora notò la foto di un bel ragazzo, sui trent’anni.
Capelli biondi, labra sottili e un pizzico di brio negli occhi. Iniziò a leggere e si sentì lusingata. Arrossì. Decise di rispondergli.

“Ciao, io sono Serena. A dire il vero le tue parole mi mettono non poco in imbarazzo, ma penso non ci sia niente di male a prendere un caffè con un bel ragazzo una volta tanto.”

Fissarono l’appuntamento per l’indomani. Furono entrambi di poche parole, le foto rispecchiavano la realtà, crudele e veritiera come poche altre volte. Bevvero il caffè e poi si incamminarono. Pochi passi, lui le sorrise, lei ricambiò. Si baciarono. Attimi che parverò interminabili.

Alone. Sangue. Lei smise di sorridere, lui divenne a sua volta serio. Si guardò intorno e poi la pose trai cespugli. Se ne andò, sul volto il suo solito sorriso.

La notò tra i fan di una locale carino sulla Tuscolana, ne vide gli occhi a mandorla, le pupille color nocciola. Era anche lei di Roma, come lui. Avevano la stessa età. 
E decise di scriverle.
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Dialoghi surreali - II




Smetti per un attimo di illuderti

Non mi sono mai illuso

Oh si. La tua vita è una continua illusione.
Sempre alla ricerca di un perché inesistente e futile.
Vivi, non sognare ad occhi aperti.

Io non sogno, credo.
Do’ vita al futuro. Oggi, per  me, è già domani
e non posso fare altrimenti.

E quindi credi che rifuggiandoti in quelle
quattro mura all’interno del tuo cervello tu
possa vivere in maniera dignitosa?

Lo so per certo, quante sono le persone che
attraverso una mia frase, una mia riflessione o
una mia decisione hanno pianto, riso, si sono
emozionate?

Molte, non saprei quante di preciso.

E tu puoi dire lo stesso di te e del tuo modo
di vivere la vita?

No, non posso. E non voglio.
Io preferisco vivere.

E io la vita preferisco farla vivere.
Le emozioni, gli attimi, le sensazioni.
Tutto mi scivola addosso.
I dotti del tempo non sono altro che vana attesa
tra una vita e l’altra. 
La reincarnazione amico mio, mio fratello.

Ma allora non ha nemmeno senso fare
vivere gli altri a questo punto.

Invece ne ha, io do’ un senso alla mia vita
ed a tutte le cose che faccio, penso e scrivo.
Rendo piene, sature, le esistenze altrui e così
anche io posso sentirmi vivo.

E un processo irreversibile il tuo.
Ti sei spinto troppo oltre perché possa tornare
indietro.

No, non è così. Lentamente ci spegniamo ogni giorno.
Sentiamo l’anima distaccarsi sempre un po’ di più dai nostri
caducei corpi terreni. E che cosa sono le emozioni, i pensieri, se non
fallaci riflessioni del nostro io? Dunque è meglio sacrificare la propria
esistenza per il bene del prossimo piuttosto che nella ricerca di un bene individuale.

Forse hai ragione.

So di avere ragione. Non può essere altrimenti. Fidati di me.
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L'insostenibile leggerezza...dell'essere uomo





Stando alle recenti ricerche compiute in campo antropologico è stato dimostrato che il rapporto tra uomo e donna è univocamente di carattere sessuale, ogni altra implicazione emotiva e caratteriale è per tanto da escludersi.
Formate sei coppie composte rispettivamente da un uomo e da una donna, è stato studiato l’evolversi delle loro relazioni interpersonali nell’arco di un mese.
La prima coppia, composta da un trentenne disoccupato e da una trentenne con impiego stabile ha dimostrato che se l’uomo non lavora, difficilmente riuscirà ad avere una relazione con una donna, anche solo di carattere amichevole, tanto più ad infilarsi nel suo letto.
La seconda coppia, un quarantenne navigato playboy e una venticinquenne di buona famiglia e appena laureata, ha dimostrato che l’uomo, se in un’età nettamente maggiore a quella della donna, difficilmente punterà ad esserle amico.
Con la terza coppia sono state invece invertite le età, lei una cinquantacinquenne casalinga e lui un ventiquattrenne studente universitario. In questo caso è stata la donna a fare il primo passo e l’uomo, messo alle strette, il primo a fare un passo indietro. Ciò dimostra che non sempre possa nascere anche un semplice rapporto di natura sessuale, devono esserci condizioni minime o quanto meno una determinata predisposizione ai dislivelli di età.
La quarta coppia si è decisa di formarla con due adolescenti, entrambe sedicenni, entrambe alle loro prime esperienze con l’altro sesso.
Sottoposti ad un breve questionario esplicativo, al termine del periodo di monitoraggio, lei ha confessato di desiderare ardentemente un principe azzurro, mentre lui di desiderare ardentemente altro. Da qui l’ipotesi che l’uomo medio, nell’età adolescenziale, conferisca notevole importanza all’opinione che ha di sé la sua cerchia di amici.
La quinta coppia è stata quella che ha illuso della possibilità che tra uomo e donna fosse possibile un rapporto improntato esclusivamente sull’amicizia.
Lui settantottene e lei settantacinquenne, hanno trascorso venti dei trenta giorni in giro per locali demodè, tendenzialmente naif, camminato a lungo su viali ricolmi di foglie, discusso di cinema, letteratura e arte. Fino al giorno in cui l’arzillo settantottene non ha scoperto il viagra e ha incominciato a presentarsi ai quotidiani appuntamenti con brochure di motel e fantomatici viaggi terapeutici ad Ostia Lido.
La sesta ed ultima coppia è stata l’unica che non ha tradito le aspettative. Amici, amanti, confidenti, viaggiatori. Ora riposano insieme all’ombra dei cipressi.
In conclusione appare evidente che un rapporto di sola amicizia, in condizioni normali, sia quasi del tutto impossibile.
Un detto di una delle tribù di Yali affermava che tra uomo e donna dovesse instaurarsi principalmente un rapporto di amicizia, ma è cosa certa, ormai, che della tribù in questione non esistano più tracce.
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Attimi





Ancora un taglio. 
Poche gocce si disperdono nel lavandino. 
Rivivo la notte appena trascorsa attraverso confusionari rimandi lisergici. 

E’ un attimo. 

Facce vuote. Non parlano, non ridono. 

Un rivolo scorre lungo il polso, arriva al gomito e riprende a cadere nel lavandino.
Vedo la mia immagine riflessa nello specchio, ravvivo i capelli con la mano sinistra. 

E’ un attimo. 

Forse qualcosa sta tornando in superficie.
Volti inespressivi. Alcuni mi parlano, io rispondo, non ricordo cosa. 
Beviamo. Una sigaretta, poi un’altra. E un’altra ancora. 

Prendo il pettine, continuo a guardare il mio riflesso nello specchio, non mi sono mai piaciuto. Mi assicuro i capelli cadano perfettamente davanti agli occhi. 

Un altro taglio, sono tre, perpendicolari, non paralleli. 

E’ un attimo. 

Qualcos’altro torna in mente.
Lineamenti indefiniti. Ridiamo, beviamo birra, poi una RedBull.
Una corsa in bagno, una su per il naso. L’Alka Seltzer mi brucia il setto nasale, l’aspirina ingerita con la coca tampona il dolore.

Mi guardo allo specchio. Più bianco del solito. 
Sono le tre e mezza, il cellulare vibra, non rispondo. E’ mia madre, già lo so. Sono le quattro, ancora su, fino al cervello, e poi in macchina. 

Sono le cinque, entro in casa, provo a non fare rumore. Le cinque e trenta e poggio la testa sul cuscino, inizio a dormire. 

Non sogno nulla. 

Rosso, l’intero lavandino. 

Accarezzo il volto. Irregolare. 

Mi guardo un’ultima volta. Prendo il cellulare con la mano destra, alzo il braccio e il sangue incomincia a scendere copioso. 

Aspetto l’attimo.

Poi guardo verso l’obiettivo. 
Scatto. 

Esco di casa. 
Pronto a ricominciare.
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The importance of being nerd





Dietro i suoi occhiali squadrati, fondi di una bottiglia invecchiata male, la spia ogni giorno, sperando lei arrivi per dirgli che potranno finalmente vedersi per l’ora di cena. E invece rimane come ogni giorno a casa, perso tra i suoi fogli di calcolo, la sua collezione di Spider-Man -ogni numero rigorosamente imbustato- e una discutibile quanto variegata collezione di porno interspecie. Una volta tanto potrebbero uscire alle otto di sera invece che alle tre del pomeriggio, se suo padre glielo permettesse. Ah se solo fosse grande, verde e muscoloso come l’incredibile Hulk, sfonderebbe tutte le mura di casa e la porterebbe lontana dai suoi. Andrebbero in riva al mare a guardare il sole tramontare, in sottofondo B.J. Thomas a cantare Raindrops keep fallin’ on my head, gli ultimi scampoli di luce ad illuminare il suo labbro leporino che mette in mostra una perfetta dentatura e i capelli di lei troppo grassi per essere mossi dal vento. Poi volerebbero in cielo, lei sui suoi piedi, come Lois e Superman nel film di Bryan Synger, si poserebbero su una nuvola e potrebbero fare l’amore, se solo lei non fosse nel suo periodo no del mese. Ah se le donne fossero crostacei invece che mammiferi, questo il primo pensiero che gli balena in mente.
Infine la riporterebbe a casa, la bacerebbe, rimetterebbe in moto la Tumbler e farebbe ritorno alla sua batcaverna. E invece un altro giorno è passato, si sono visti come al solito alle tre, sotto il sole cocente, una rapida pomiciata e poi lei lo ha lasciato solo. Lui è rincasato. Una VHS presa a caso dalla sua collezione, l’ennesimo su e giù con la mano e il resto del pomeriggio su internet. Infine a dormire, pronto per le avventure del nuovo giorno.


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1986








I am a crooked man
And I’ve walked a crooked mile
Night, the shameless widow
Doffed her weeds, in a pile
The stars all winked at me
They shamed a child
Your funeral, my trial

[Your funeral...my trial - Nick Cave and the Bad Seeds]


E' sempre questione di incubi.
Digitali. Castlevania porta Dracula nelle case di tutti.
Brain terrorizza i computer di mezzo mondo.
Cartacei. Dylan Dog e Groucho affrontano l'alba dei morti viventi.
Stefano Tamburini si perde inseguendo Ranxerox.
Di celluloide. Gli alieni di James Cameron sono insormontabili.
Le ossessioni di Lynch raggiungono la quotidianità.
Musicali. I Black Flag si sciolgono.
Master of Puppets consacra i Metallica.
Letterari. Alberto Moravia sposa una ragazza quarantacinque anni più giovane di lui.
Frank Herbert lascia la terra per approdare a Dune.
Reali. La nube di Cernobyl oscura l'Europa.
La morte di sette astronauti le missioni della NASA.
E' sempre questione di incubi.
Anche nascere.
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Mio padre è un uomo saggio, un uomo giusto





Oscilla. Non si ferma.
Il cigolio continua a trapanarmi il cervello, ma vado avanti. Continuo imperterrita.
Le deboli gambe provano a flettersi nella speranza di ottenere una maggior spinta.
Le mani sono saldamente ancorate alle catene. Dondolo. E non mi fermo. Non ho intenzione di fermarmi. Salgo in aria, quasi volo, e vedo il Tevere lì davanti. Scorre placido, silenzioso. Timidamente bagna questo nuovo giorno. L’aria fresca penetra attraverso le narici e arrivi ai polmoni, vedo una mamma uscire di corsa da un portone. Stringe a sè suo figlio, non avrà più di un anno. Mia madre non mi ha mai stretta a sé, se n’è sempre preoccupato mio padre.
Le lunghe camminate dentro Roma, alla scoperta di un angolo ancora nascosto di Villa Borghese o di un anfratto inesplorato di Trastevere. Ogni giorno scoprivo qualcosa di nuovo e mi sentivo meno sola, imparavo ad apprezzare la vita e a sorriderle. Cesellavo quotidianamente un pezzetto di emozioni. E’ arrivato il momento di scendere, mio padre mi sorride e ancora una volta mi aiuta a sedermi. Insieme riprendiamo a camminare. Io e lui. Ancora una volta.
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Quei due...





C’è puzza di marcio, avanzo a tentoni con la poca luce che filtra dalle grate sopra la mia testa.
Non oso guardare l’acqua melmastra che raggiunge le mie ginocchia, il bastone che uso come appiglio mi pare ogni istante più corto, ogni minuto che passa sempre più esile.
Credo da un momento all’altro mi troverò tra le mani un ramoscello.
Suppongo sia uno dei canali delle fogne, ogni tanto intravedo un topo grande quanto il mio avanbraccio farsi strada nell’acqua, quasi surfando su cumuli di spazzatura e macerie.
Sono ormai tre ore che mi dimeno, trattengo a stento il vomito, ma più di una volta i conati mi hanno quasi messo in ginocchio.
Infine vedo un’enorme porta, corro, un ultimo sforzo e sarò fuori da questo schifo.
Le mani si muovono velocemente, ruotano la maniglia, la rugine si scrosta e i cardini ruotano dopo tanto tempo. Un immenso bagliore incomincia ad invadere il canale, alle mie spalle un interminabile squittio.
Tiro con forza, mi sento quasi svenire, ormai c’è l’ho fatta. Pochi istanti e sarò fuori.
Aperta!
Un bambino mi guarda, regge in mano una torcia. Non dice una parola e continua a fissarmi, vedo il volto colmo di lacrime, io gli sorrido e gli dico che andrà tutto bene. Lo prendo per mano e iniziamo a camminare insieme in questi sterminati meandri.
Le lacrime incominciano a scendermi sul volto.
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Denti





Cado.
Mi rialzo.
Nero.
Provo a camminare, le gambe non reggono.
Vago a tentoni, protendo le braccia verso il vuoto.
Manca un appiglio.
Cado. Nuovamente.
Le costole s’incrinano, la schiena fa male.
I muscoli, quasi atrofizzati.
Oscurità. Ancora una volta.
Mi rimetto in piedi.
Non vedo nulla. Passi piccoli e lenti.
Procedo con calma, la vedo, tendo la mano.
La maniglia si abbassa, la porta si apre.
Cado. Per l’ultima volta.
Il sangue inonda la bocca, i denti si frantumano.
Non sento più nulla.
Cessano i ricordi.
Definitivamente.
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Dialoghi surreali - I




Sono io!

No, non sei tu.

Si, sono io!

Dimostramelo.

Ti amo. Io ti amo.

Potrebbe dirlo chiunque.

Io lo penso, lo sento. Sono sincero.

Non è quello che volevo sentirmi dire.

Credimi. Fidati. Lasciami entrare.

La porta è aperta. Come sempre del resto.

Non il tuo cuore, la tua anima. I tuoi pensieri.

Ci vorrà del tempo.

Fidati di me. Lasciami entrare. Apriti a me.

Non ora, non ancora.

Allora non ha senso io salga quelle scale.

Per me ne ha.

E quale?

Ho bisogno di te.

No, tu hai bisogno di qualcuno che ti sorregga, ti dia supporto, ti stia vicino. Ma non hai bisogno di me. No di certo.

Ti prego, sali. Anche io ti amo.

Nemmeno mi conosci, non hai mai visto il mio volto. Potrei essere deforme. Vomitevole.

Imparerò a conoscerti. Ad amarti. Al di là del tuo aspetto.

Un’altra volta mio perduto amore.

Ti scongiuro, non abbandonarmi.

Ho troppi difetti perché tu possa amarmi. Troppe questioni in sospeso. Dubbi amletici.

Sali, la porta è ancora aperta. Sono qui. Per te!
Addio.

Entra, li risolveremo i tuoi problemi. Sarò sempre al tuo fianco.

No. La mia esistenza è già rovinata, non voglio essere di peso per un’altra anima.

Ti aiuterò. Ci sarò sempre. Te lo prometto.

Non puoi. Io sono già morto.

Sei qui, sento la tua voce, se mi sforzo posso anche avvertire i battiti del tuo cuore.

Non mentirmi.

Non lo farei mai.

Mi hai appena conosciuto, come pretendi di amarmi? Come pensi di potermi aiutare a risolvere i miei problemi?

Neanche tu mi conoscevi prima di adesso. Eppure sei qui a dirmi che mi ami.

Oh si, io ti conoscevo. Ho vagato nel mondo con la speranza di riuscire finalmente ad incontrarti un giorno.

Neanche tu sai come sono, come potrei essere.

Lo so, non sbaglio mai. Non su queste cose. E’ impossibile succeda.

E allora sali. Amami.

No, non più. Non è il momento adatto ormai.

Entra, rimani qui. Fermati. Non andare via.

E’ tardi. Il tempo a mia disposizione è finito. Il nostro tempo si è esaurito. Non avrebbe senso entrare ora, varcare quella soglia e poi perderti come una foglia al vento. E non mi ami, non potresti mai.

Si, io ti amo. Fermamente. All’inizio l’ho detto solo per accontentarti,
per non farti stare male. Per non farti commettere scemenze. Ma ti amo.
Lo giuro. Ora ti amo per davvero.

Addio amore mio, forse in un’altra vita.

Addio mio amore.

Ho mentito. Come sempre. Non ti amo. Non ti desidero. Non ti ho mai cercata. Non credermi. Mai.
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Problemi logistici by Mattia Veltri is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License. Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001. Realizzazione grafica: Dora Scavello