15.4.10

Presa di coscienza. Atto di fede



Io non me la passo bene. Proprio per niente. Dicono sempre che vedo tutto, amo tutti. Sono misericordioso. Ma qualcuno si è mai posto il problema di cosa mi piaccia realmente? Cosa mi dia realmente piacere? Io ancora non l’ho capito, non riesco a rendermene conto. Sono qui da sempre, non come pensano loro da quei seimila anni di storia che mi attribuiscono. Eppure mi pare di essere l’ultimo arrivato. Quello che la maestra mette dietro la lavagna quando dice una qualche scemenza o il dettato non gli è riuscito a dovere. La lavagna, poi, non era nemmeno nei miei più reconditi pensieri. Una situaziona immaginifica, quella in cui mi trovo catapultato, fatta di esseri con due braccia, due gambe e diverse altre estremità, un proprio io pensante e le più disparate emozioni. Carne, ossa e intelletto si mescolano per dare vita ad un pastiche di incommensurabile valore. Il bello è che ognuno mi affibbia nomi differenti, come se fossimo tanti colleghi, una squadra di calcio, un team di operai specializzati pronto a intervenire quando loro, i credenti mossi da mistico fervore, compiono una follia di qualsivoglia genere in nostro nome. In mio nome. Si rifanno, dicono, a quello che io ho detto in tempi andati, antidiluviani. Ma detto cosa? E, soprattutto, a chi? Non sanno come mi chiamo, non sanno cosa desidero, continuano a ripetere che sono morto o schiavo del denaro. Ma non è vero, niente di tutto ciò è vero, sono soltano me stesso. Lo sono sempre stato, non ho inviato nessun emissario né mai giustificato nessuna azione in mio nome. Non mi sono mai sentito un dio, una sotanza incorporea, atemporale e onnipresente. Per quanto mi duolga dirlo vorrei, ogni tanto, sentirmi umano. Che gioia sarebbe. Accendere le luci dagli interruttori, invece che doverle creare dal nulla. E poi è anche l’incipit del libro, quello con la lettera maiuscola, maledizione. Tutta questa responsabilità per me è veramente troppa. Vorrei poter andare in gita allo zoo e vederli gli animali, invece che esser costretto a partorirli dalla mia mente. E in realtà sono qui relegato, secondo loro, su un enorme trono, circondato da vorticanti angeli rubicondi che sorridono a tutte le ore e per qualsiasi motivo. Poveri scemi. Ma il qui non esiste. È uno stato mentale. Non sono da nessuna parte. Non sono nessuno che non vogliate io sia. Sono il figlio di ogni tempo e di ogni uomo, il frutto della società. Sono un dio, il dio, solo se voi mi considerate tale. Fino ad allora rimango un parto delle vostre menti. E come tale non ho ragione alcuna di preoccuparmi.

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