Magari a volte ti alzi con la speranza di sputar un po’ di sangue al mattino, di sapere che i tuoi polmoni stanno veramente male, che non è soltanto l’ennesima ricaduta, non è un attimo di ordinaria follia in tante giornate dal basso profilo.
Ammalarsi lontani da ‘casa’ all’inizio è strano, nell’immediato non sappiamo come comportarci, non c’è nessuno che ci porti una tazza di té caldo, nessuno che ci dica andrà tutto bene e sopravviveremo, nessuno che acconsenta alla richiesta di chiudere la porta della nostra stanza. Il perché, del resto, lo ignora chiunque. Quello che c’è all’esterno, in situazioni simili, è tanto ovattato quanto quello che circola nella nostra testa.
La prima volta succede perché deve succedere, ti alzi, a stento muovi le gambe, il respiro è affannato, ma sopravvivi. La seconda, nonostante il danno sia maggiore, te ne fai una ragione, capisci che per certi versi puoi farcela da solo. Passano mesi tendenzialmente tranquilli e arriva, finalmente, Marzo. Il mese della resa dei conti. Per fortuna durato meno del previsto.
L’idea, la convinzione, alla base di tutto è che sia stata un’intossicazione alimentare, anche se continuano tutti a dirmi di no, ma sono sempre stato convinto che tonno e pomodoro non possano convivere per nessuna ragione al mondo, aggiungiamo il tutto alla mia indisponenza nei confronti dei camerieri ed ecco servita una magnifica intossicazione alimentare di prim’ordine. Perché già venerdì sera stavo male. E sabato mattina ancora peggio, al punto che fare i quattro metri che mi separano dalla stanza alla cucina si è rivelata un’impresa titanica (altro che Sam Worthington). Nel pomeriggio si sono aggiunti i tamburi di guerra e gli Olifanti in marcia sull’Appia (c’è chi dice fossero centocinquantamila, chi un milione, in questo caso dubito la verità stia nel mezzo), poi è arrivata la telefonata che mi ha cambiato la giornata, perché una volta tanto sono stato a sentire Dora. E nonostante c’abbia messo oltre un’ora per raggiungere casa sua, alla fine è lei che mi ha impedito di sputar fuori anche l’anima nell’arco di ventiquattro ore. Ma andiamo con ordine, raggiungo la benedetta casa che sono quasi le cinque del pomeriggio e sono già pienamente calato nella parte del malato immaginario (con tutto il rispetto per Molière). Intorno alle otto di sera la temperatura corporea raggiunge e supera i trentanove gradi. E iniziano i primi deliri sinaptici.
Appare Alan Moore in versione Buddha vicino a me sul letto, discorriamo sul fatto se sia o meno il caso di chiamare Dora, conveniamo sia meglio temporeggiare un altro po’ (anche se in cuor mio vorrei provare, ma la voce non ne vuol sapere di uscire), poi lui accede a Facebook, gira per la casella di posta, chiede l’amicizia ad un paio di persone e poco ci manca che commenti al posto mio. Breve vuoto temporale, in cui credo di aver dormito. Alle otto vedo arrivare un bicchiere -modello IKEA per gli interessati- con dentro un liquido rosso. Alan sornione mi dice si tratta di liquido mestruale, io vorrei non dargli retta, ma lui continua ad annuire e a guardarmi soddisfatto, così sono indeciso se berlo o meno. Dora mi spiega si tratta del famoso karkadé (che devo aver chiamato in altre trentacinque modi lì per lì), estratto di foglie di ibisco se non ricordo male (e non mi pare il caso di verificare su google, potrei scoprire che Alan aveva ragione), bevanda marocchina che raggiunge i trecento gradi, ma riesce comunque a dissetarti. Mando giù, lui mi guarda fastidiato, io vorrei tanto prendere due o tre efferalgan da mille, giusto per riempire uno stomaco già abbastanza vuoto, e invece arriva la cena (mi dice che ho esordito con un “era ora”, ma io non lo ricordo proprio e, nonostante sia un fervente maschilista, non lo avrei detto in condizioni ‘normali’). Intorno alle dieci Alan cambia posto e si viene a sedere di fianco al letto, io dovrei dormire. E in effetti ci riesco. Vuoto temporale. Sono le quattro del mattino, Alan è scomparso, in compenso sogno David Murphy in versione castana che armeggia con una chiave inglese, non voglio nemmeno sapere per quale motivo. Mi sveglio nuovamente, sento la presenza di Sawyer e soci, si Dora indossa le cuffie, ma “Lost” mi perseguita ugualmente. Riprendo sonno. Alle undici mi sveglio, la febbre è passata, Alan non c’è più. Contavo di cavarmela in molti più giorni, come al solito, e invece è bastata soltanto una notte. Per questa volta. Però un paio di Efferalgan precauzionali le ho prese ugualmente.
Dall’esperienza ho capito che non è il caso di lamentarsi più del dovuto, che Alan Moore in versione Buddha rappresenta il Nirvana per i ‘fumettari’ (e forse anche per i nerd in genere), devo indagare, ma mi auguro di avere una ricaduta fra almeno un paio di mesi, non prima e che se non fosse stato per Dora, che metto in ultimo soltanto per concludere (questa potrebbe esser considerata una paraculata, lo so), e per la sua pazienza nel sopportarmi (senza indugiare sulla teoria dell’uomo che quando sta male diventa peggio di una donna, che non mi pare proprio il caso) starei ancora rimettendo l’anima.
Però ci sono tanti altri mesi davanti e tante altre occasioni per ammalarsi. C’è Giugno, a me Giugno è sempre piaciuto. Gran bel mese.
Oggi è lunedì, è uscito il primo volume del Topolino di Floyd Gottfredson (non finirò mai di ripeterlo, ma son contento), l’ho acquistato mentre un anziano signore chiedeva “Il Messaggero” e l’edicolante si rifiutava di venderglielo. È lunedì e piove. È iniziata un’altra settimana. Alleluja.