5.2.10

Metallo urlante



Sono nato un giorno d’inverno.
I miei, quando ero piccolo, mi raccontavano sempre che quel giorno l’intero cielo si era riversato sulle loro teste e che fulmini avevano squarciato le nubi. L’apocalisse.
Non so perché, ma ho sempre immaginato di esser venuto al mondo portato in braccia da uno dei quattro cavalieri dell’apocalisse. Pestilenza magari.
Mi rafforzavo con il passare dei giorni, immaginavo le infinite potenzialità che il mio corpo e i miei muscoli potessero offrirmi, flettevo le braccia e immaginavo di librarmi in aria.
Pindarici voli che mi permettevano di staccarmi dall’apocalisse che si era, questa si, effettivamente generata durante la fredda guerra. Immagini in movimento, illusioni. Una fuga premeditata dalla grigia realtà.
Volevo diventare un aviatore, servire il mio paese. A dodici anni iniziai a manifestare un concreto interesse per il volo. Tartassavo i miei con assurde ed esose richieste, dipendevo dall’aria. Non volevo più rimanere ancorato al suolo. Confinato sulla piatta terra. Perché la terra è piatta, non credete a chi vi dice che sia rotonda, una sfera. Tutte fandonie.
Di infinito ci sono soltanto il cielo e lo spazio sovrastante. Sterminate galassie, ammassi di nebulose, stelle, supernove, pianeti, asteroidi. Infinite possibilità.
Avvertivo i cambiamenti nel mio corpo, sentivo un’incessante potenza scorrere nelle mie vene, i miei muscoli erano instancabili, riuscivo a percorrere enormi distanze in poco tempo e senza il minimo sforzo. Sollevavo pesi che un uomo comune non penserebbe nemmeno di poter tangere. Mi sentivo un dio. Sceso in terra insieme ai quattro cavalieri dell’apocalisse in quel freddo giorno d’inverno.
E così mi arruolai nell’esercito. Ed anche lì riuscii ad emergere dalla massa. I miei compagni camerati erano vacue nullità, brandelli di carne ammassata, si affannavano a completare il percorso di allenamento nel minor tempo possibile, e li vedevo raggiungere il traguardo paonazzi, sfiniti. Ed io ero lì ad attenderli, lindo, immacolato. In breve tempo riuscii a fare carriera e già il mio nome correva per le vie della grande capitale.
Non trascorse molto tempo che effettivamente i vertici dell’esercito mi convocarono.
Una missione speciale per un individuo speciale. Avrei affrontato il nemico all’interno del suo territorio. Sarei penetrato nella tana del drago armato soltanto del mio coraggio e di un Remington 870. Si, scelsi un’arma del nemico. Le fabbricavano in maniera migliore e non volevo si verificassero inconvenienti. Più di una volta avevo visto arti dei miei compagni saltar via a causa di un malfunzionamento delle nostre armi.
Era un giorno soleggiato, lo ricordo come fosse ieri, quello in cui partii per la mia missione. Abbracciai forte mio padre e baciai tre volte mia madre sulle guance. Sapevo che probabilmente non li avrei mai più rivisti. Era una missione suicida, ero stato avvisato.
Ma l’orgoglio di poter servire in maniera più che dignitosa la mia nazione, di potermi guadagnare un posto tra i grandi, lì sul momento nella grande piazza, mi spinse ad accettare senza riserve.
Una tragedia. Fallimento.
Non avevo minimamente pensato fossero così organizzati, né tanto meno che sapessero del mio arrivo. Che mi attendessero con le armi spianate. Pronti a distruggermi. Si, perché non sono umano, ormai lo so. Ne prendo atto. Non sono nemmeno vivo. E ciò che non vive non si può uccidere, lo si può soltanto distruggere. Annullare. All’interno del mio petto batte un cuore meccanico, le mie gambe sono di acciaio e le mie mani hanno articolazioni di viti e bulloni. Il mio cranio è composto da scarti di ferro, zinco e ossa di qualche povero disgraziato caduto su un non precisato campo di battaglia.
Ormai so anche che il mio nemico era in realtà la mia stessa nazione, che i miei genitori in realtà erano una coppia di bovari e zappaterra della steppa e che la mia amata nazione, la gloriosa madre Russia mi aveva creato col solo scopo di sperimentare nuove tecnologie da applicare poi sul campo di battaglia. Ne sarebbero stati creati altri simili a me. Altri fratelli di ossa e acciaio, magari privi di un cervello e di una volontà propria. Per i quali non sarebbe stato necessario creare una serie di bugie su cui costruire le loro vuote infanzie. Perché io non sono mai andato in accademia, non ho mai avuto dodici anni, non ho mai chiesto ai miei di entrare nell’aviazione. Non ho mai vissuto.
Sono un blocco di granito vergine, nelle mie precedenti incarnazioni sono stato della carne equina, delle ossa di maiale, dei pilastri dell’alta tensione, delle viti per un giocattolo di qualche bambino viziato e piagnucolone. Sono stanco. Desolato. Irato. Depresso. Non so neanche più se quello che ho davanti sia vero oppure sia un altro refuso del mio indottrinamento originale. E’ una tragedia. Ho ucciso. Li ho uccisi tutti. Non volevo credere a quanto mi stavano dicendo, ma poi ho visto i miei fratelli venire assemblati da altre macchine ed ho dovuto ricredermi. Sono anche io una macchina. Un abozzo di androide e non sarò mai umano. Non sarò mai vivo.
Tanto vale allora farla finita, abbandonarsi all’oblio definitivo. Un colpo secco, deciso.
E via. Ora sì, vedo la luce. Fletto le braccia, sono nel vuoto, nessuno riesce ad afferrarmi.
Il mio chip emozionale esplode in un caleidoscopio di colori e suoni, mi si offusca la vista, tutto è bianco, tutto è tutto e niente al contempo. Immagini affollano la mia mente, ricordi che non ho mai avuto. Sto volando. Mi sento realmente vivo per la prima volta. La carne stride, urla, a contatto con le mie parti metalliche. Ora so che cosa significhi essere realmente uomini. So cosa vuol dire volare, librarsi nell’aria. Essere liberi. Peccato averlo scoperto così, solo ora.

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