30.1.10

Sottosuolo



Ogni storia ha sempre un inizio, uno svolgimento e una fine.
All’epoca non ero tanto d’accordo con questo principio, questo massimo sistema.
Col tempo mi sono dovuto ricredere.
E’ il 1979 e guardo mia figlia giocare nel cortile davanti casa.
Pioveva quel giorno, ma lei era voluta ugualmente uscire, “La pioggia è divertente papà! Vieni anche tu!”, ma non potevo, avevo parecchio lavoro arretrato e per l’indomani avrei dovuto presentare il progetto completo. 
Una piccola smorfia di dolore mista a dispiacere, indossò la sua mantellina gialla e uscì a giocare.
Le raccomandai di non attardarsi, “Un’ora soltanto” e mi diresse un sorriso al quale non riuscii a dire di no.
Sandra all’epoca lavorava ad un’ora di macchina da casa e toccava a me occuparmi di Nadine.
Quando rimase incinta ricordo le discussioni sul nome, fosse stato un maschio avrei voluto chiamarlo Andrew, come mio padre, fosse stata una femmina Rose mi era sempre sembrato il nome ideale, quello che si ha impresso in mente sin da piccoli e si immagina come sarà il proprio futuro, quanti figli avremo e che lavoro faremo. Come moriremo.
Sandra voleva invece che il maschio si chiamasse George “Come il presidente”, disse, “Anche lui diverrà qualcuno”, qualora fosse nata femmina era certo si sarebbe chiamata Eliza, proprio come sua nonna.
Finimmo per chiamarla Nadine, come la dottoressa che aveva salvato Sandra e nostra figlia durante il parto. Ci convincemmo a vicenda che era la cosa più giusta da fare, e Nadine non era un nome poi tanto brutto.
Nadine cresceva forte e in salute, i capelli erano biondi, come quelli di sua madre, ma il resto del viso era identico al mio, compresi gli occhi verdi.
E’ il 1989, mia figlia esce per la prima volta per l’ora di cena.
Le raccomando di non tornare tardi e di stare attenta, ma riesce a strapparmi mezz’ora sul coprifuoco, sorridendomi.
E’ il 1999 e rispondo al telefono, una voce calma, di donna, mi chiede se io sia il signor Moss.
“Sono l’agente Michaelson, sua figlia Nadine è ricoverata nel reparto di terapia intensiva del St. Thomas, è stata seviziata e violentata ripetutamente nel corso degli ultimi due mesi”. Riattaccai, presi le chiavi della macchina e uscii.
Era piena di lividi sul volto e sulle braccia, il sangue intorno alla bocca non si era ancora coagulato del tutto, mi vide e si sforzò di sorridere, ma le uscì una smorfia da maschera da tragedia greca. Le dissi che sarebbe andato tutto bene, che ne saremmo usciti e mi accorsi che lei guardava oltre, non mi dava retta, infine ruppe l’imbarazzante silenzio in cui eravamo precipitati “C’erano mille grilli quel giorno papà. Mille grilli e tutti saltavano all’unisono, danzando. Mancavi soltanto tu”, poi chiuse gli occhi.
La seppellimmo un mese più tardi, non versai una lacrima, mia moglie se ne andò con lei.
E’ il 2009, torno a casa e trovo le luci spente, Sandra penzola dal letto, la bava alla bocca non mi lascia dubbi, mi siedo e rimango a fissarla tutta la notte.
Neanche per lei versai una lacrima, non ci riuscii, nonostante tutto.
Oggi.
Credo mi fermerò qui, in fondo ogni storia ha un inizio, uno svolgimento e una fine.
Chiudo gli occhi e sogno.
Per l’ultima volta.

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